Sono giorni nei quali è stata scritta la storia, e se qualcuno
sfoglia i quotidiani italiani o europei difficilmente riesce a capire
che stanno accadendo degli accadimenti di una portata così enorme da
cambiare completamente tutto il precedente status quo del secolo scorso.
Se si sfogliano i “nostri” quotidiani si ha la sensazione che ormai i
loro gestori e proprietari abbiano deciso di rinchiudersi nella loro
bolla nella speranza che la piena della storia che sta passando in
qualche modo li lasci lì, rinchiusi e intenti a proseguire il consueto e
consunto esercizio della autocelebrazione.
E’ accaduto proprio con il voto alle europee. L’atmosfera è a dir
poco irreale. La maggioranza assoluta degli italiani ha bocciato
interamente il sistema politico italiano partorito dalla
disgraziatissima Seconda Repubblica e i vari editorialisti e
“giornalisti” sono affetti dalla sindrome delle tre scimmiette.
Si pretende di far finta di nulla, ma mettere la testa sotto la
sabbia non cambierà nulla se non peggiorare la situazione di costoro
ormai affetti da una dissonanza cognitiva che appare inguaribile.
La morte del petroldollaro
Lo stesso è accaduto per un altro fatto di enorme rilevanza storica che è quello che riguarda la nascita del petrodollaro che da tre giorni circa è di fatto morto.
Il petrodollaro non è altro che il risultato di un accordo politico e geopolitico nato nel 1973 tra l’amministrazione di Richard Nixon e il regno dell’Arabia Saudita
per mantenere in piedi uno status quo che vedeva assegnato alla moneta
statunitense il primato su tutte le altre monete mondiali, ovvero quello
della moneta di riserva mondiale.
Il Paese che dispone di questa facoltà, un “esorbitante privilegio”
come lo chiamava l’ex presidente francese Giscard D’Estaing, ha la
capacità di importare in maniera virtualmente illimitata qualsiasi bene
da ogni parte del mondo in quanto tale Paese dispone della capacità di
stampare la sua moneta dal nulla.
Nel caso degli Stati Uniti ciò avviene grazie alla nota Federal
Reserve Bank che presenta delle caratteristiche molto controverse sin
dalla sua creazione nel lontano 1913, poiché tale istituto è di fatto
controllato dai vari membri della finanza askenazita di Wall Street che
sin dalla sua fondazione governano e decidono della politica monetaria
della FED.
A spiegare come la FED sia di fatto una entità governativa soltanto
nel nome ma non nella realtà giuridica è stato, tra gli altri, il
ricercatore e storico americano Eustace Mullins che ha dimostrato come
le “grandi” famiglie dell’alta finanza quali i Warburg, i Rockefeller, i
Morgan e i Rothschild abbiano sempre avuto le redini di questa potente
istituzione.
Il petrodollaro però non è stato il primo accordo a dare agli Stati Uniti questo enorme potere.
La decisione di dare al dollaro la qualità di valuta di riserva
mondiale fu presa negli Stati Uniti, a Bretton Woods, nel 1944, un posto
non molto noto fino ad allora, laddove le potenze dell’anglosfera
vincitrici della seconda guerra mondiale decisero che il dollaro sarebbe
stato la valuta da utilizzare per i pagamenti internazionali, e questa
condizione sarebbe stata garantita da quello che è noto come gold
standard.
Il dollaro, in quell’epoca, era legato all’oro e questo di
conseguenza voleva dire che i governi stranieri avevano la possibilità
di “riscattare” i loro dollari per una quantità di oro pari a 35 dollari
all’oncia, secondo i parametri stabiliti a Bretton Woods.
Questo significava che gli Stati Uniti dovevano essere pronti ad
avere il quantitativo necessario in oro per poter garantire la
convertibilità della loro moneta al metallo prezioso.
Le pressioni nei primi anni’70 sul sistema di pagamenti partorito a
Bretton Woods stavano però crescendo e alcuni Paesi avevano già iniziato
a vendere i loro dollari per incassare oro.
Nixon decise di staccare la spina a quel sistema per la crescente
preoccupazione che Washington non fosse più in grado di garantire tutti i
pagamenti in oro.
Siamo passati quindi da un sistema di cambi fissi dove ogni moneta
era legata all’oro e al dollaro ad uno di cambi flessibili dove ogni
valuta è libera di poter fluttuare sui mercati, e personalmente
riteniamo migliore questa seconda soluzione in quanto se la moneta è
libera di potersi svalutare è in grado di reggere meglio le pressioni
dei mercati e di proteggere meglio il costo del lavoro.
Questo è utile ricordarlo perché abbiamo costatato che alcuni lettori
che vorrebbero uscire dall’euro si lasciano sedurre da alcuni
monetaristi americani che hanno una impostazione di natura neoliberale e
protestante e che considerano la stampa della moneta come una sorta di
“peccato originale” da evitare ad ogni costo.
Il dollaro comunque, da quel momento, ha perduto le originarie
caratteristiche che gli avevano donato lo status di valuta di riserva
globale.
Erano gli accordi di Bretton Woods che avevano determinato questa
condizione. Era la convertibilità dell’oro in dollari che dava al
biglietto verde statunitense una caratteristica unica rispetto alle
altre valute.
Le monete fiat e il divorzio Tesoro-Bankitalia
Dopo il 1971, il dollaro è come tutte le altre monete. E’ una moneta
fiat, ovvero una moneta la cui emissione non è ancorata al possesso di
una materia prima, in questo caso l’oro, ma che può essere emessa senza
alcun limite dalla banca centrale esattamente come avviene per ogni
altra valuta del mondo.
L’euro, ad esempio, è una valuta fiat ma la sua facoltà di emissione
non è rimessa nelle mani degli Stati membri ma nelle mani della BCE che
non può considerarsi nemmeno una banca centrale nel senso reale del
termine, poiché questa non risponde agli Stati membri dell’Unione
europea.
E ci sia consentita qui una breve digressione per quello che riguarda invece la “nostra” banca centrale.
C’è stato un tempo infatti in cui la banca d’Italia è stata una banca
centrale a tutti gli effetti, ed era quando essa era partecipata da
banche pubbliche e quando la sua politica monetaria era interamente
decisa dallo Stato e non da soggetti terzi.
Vennero poi nel 1981 i non compianti Andreatta e Ciampi nelle
rispettive cariche di ministro del Tesoro e di governatore di Bankitalia
che decisero di eseguire il famigerato “divorzio” tra le due
istituzioni.
In termini semplici, Andreatta e Ciampi decisero di applicare, senza
alcun mandato parlamentare, i dettami del neoliberismo in Italia, Paese
che invece aveva seguito la florida e prospera terza via economica
ispirata alla dottrina sociale della Chiesa e alle politiche economiche
del fascismo.
La banca d’Italia fino a quel momento comprava i titoli che venivano
emessi dal Tesoro e ciò garantiva un basso tasso di interesse che era un
balsamo per l’economia e per avere prestiti a tassi contenuti.
La separazione tra i due istituti passò di fatto il potere che lo
Stato aveva di decidere dei suoi tassi di interesse sul debito ai
mercati.
Non era più lo Stato a decidere qual era il tasso dei titoli del
debito pubblico ma i mercati di capitali e questo portò a far salire,
ovviamente, i tassi alle stelle e probabilmente alcuni lettori che hanno
vissuto da adulti quell’epoca ricorderanno che i tassi sui bot erano
alquanto elevati e la ragione di ciò è quella appena esposta.
La nascita del petroldollaro nel 1973
Ora per tornare al dollaro, eravamo rimasti che questo aveva perduto
le sue doti monetarie per essere valuta di riserva globale, e Nixon,
prima che la sua amministrazione fosse picconata dal “buon” Kissinger,
riuscì a firmare un accordo con l’Arabia Saudita nel 1973, in base al
quale il petrolio dei sauditi avrebbe dovuto essere pagato
esclusivamente in dollari per poter essere comprato.
Non è più dunque la politica monetaria che dà al dollaro il suo status dominante, ma la geopolitica.
Alcuni potranno legittimamente chiedersi perché mai i Saud hanno
firmato tale accordo assegnando tale enorme potere a Washington.
Una prima risposta è che l’Arabia Saudita è stato a lungo tempo uno
dei primi clienti delle armi prodotte dalle varie corporation americane e
Riyadh aveva certamente bisogno di forza militare per garantire il
potere della dinastia dei Saud e per restare un attore geopolitico di
primo piano nel Golfo PersiCo.
Un’altra risposta va invece più nelle profondità di questo accordo e risale alle origini della creazione dell’Arabia Saudita.
L’Arabia Saudita è l’unico Paese al mondo che porta il nome della famiglia, in questo caso, tribù che la governa.
Questo Stato prima degli anni’30 non esisteva nemmeno in quanto i
vasti deserti della penisola arabica così ricchi di giacimenti
petroliferi erano controllati da diverse tribù.
La Gran Bretagna nella prima metà del’900 aveva già in mente quali dovevano essere i futuri equilibri per il Medio Oriente.
Dopo la dichiarazione Balfour firmata dall’omonimo ministro
britannico nel 1917, il governo inglese prende un esplicito impegno con
la famiglia Rothschild.
La Palestina sarebbe stata la futura casa degli ebrei poiché il
giovane movimento sionista mondiale aveva stabilito che quegli aridi
luoghi dovevano essere la casa del futuro Stato d’Israele per ragioni
che hanno più che a vedere con la venuta del messia ebraico che con
quelle del semplice calcolo politico.
Londra si adopera per eseguire la volontà dei Rothschild. Inizia a
stringere alleanze per portare al disfacimento l’impero Ottomano che
aveva fino alla prima guerra mondiale il mandato sulla Palestina, e uno
degli accordi firmati dal governo britannico è quello stretto con lo Sharif della Mecca,
Hussain bin Ali of Hijaz, che aveva accettato di schierarsi dalla parte
della Gran Bretagna nel conflitto per via della promessa fatta da Henry
McMahon, alto commissario britannico in Egitto.
McMahon aveva fatto credere a Hussain che dopo la guerra il crollo
dell’impero ottomano avrebbe favorito la nascita di uno Stato arabo
unito che avrebbe compreso anche la Palestina e che sarebbe arrivato
fino al Golfo Persico.
Gli inglesi, non nuovi a questo genere di inganni, si rimangiarono la
promessa fatta in quanto non avevano alcuna intenzione di dare la
Palestina a Hussain ma al movimento sionista che nel frattempo stava
continuando a far emigrare ebrei askenaziti in quelle terre.
Hussain non si piegò nemmeno negli anni successivi e non accettò di consegnare quelle terre ai sionisti.
Londra allora, rappresentata dal “buon” Winston Churchill, massone di
alto rango e all’epoca segretario coloniale decise di provare a
corrompere lo Sharif attraverso i buoni uffici di T.E. Lawrence, il
celebre Lawrence d’Arabia, che offrì grosse somme di denaro a Hussain da
lui fieramente rifiutate.
Allora il governo britannico decise di ricorrere al suo “alleato”
nell’area, il famigerato Ibn Saud, che divenne poi nel 1933 il primo
sovrano della neonata Arabia Saudita.
Ibn Saud è l’uomo della Gran Bretagna nel Golfo ed è l’uomo che
consente alla Palestina di essere occupata dagli ebrei e di diventare in
seguito lo Stato di Israele.
Sin dai suoi primi istanti di vita, come si vede, l’Arabia Saudita
non è stata altro che una creazione dell’anglosfera e uno strumento di
essa per mantenere il suo potere, e soprattutto quello del sionismo,
nella penisola arabica.
Ciò si spiega anche con le origini ebraiche dei Saud che furono denunciate da un dissidente del regno saudita negli anni’60, Nasser al Said,
e che fu “ripagato” dai monarchi sauditi per questa sua rivelazione con
il suo assassinio eseguito gettando il suo corpo da un aereo nel 1979.
L’Arabia Saudita volta le spalle all’anglosfera
I Saud sono stati dunque una protesi la cui funzione era quella di
preservare il potere politico dell’anglosfera e di Israele, ma questi
equilibri negli ultimi anni sono stati rimessi in discussione.
L’attuale erede al trono, Mohammed bin Salman, è stato conosciuto
negli anni passati per essere un fervente alleato di Israele tanto da
eseguire fedelmente la politica voluta da Tel Aviv che ha spinto Riyadh
ad una guerra contro l’Iran, avversario temutissimo dal movimento
sionista che aspira da decenni a scatenargli una guerra contro.
Bin Salman però negli ultimi anni ha iniziato a portare l’Arabia
Saudita fuori dalla zona dell’anglosfera e ha manifestato un vivo
interesse per i BRICS.
Il giovane regnante, soprattutto per opportunismo più che per una sua
sincera adesione al multipolarismo, ha semplicemente compreso che a
Washington non c’era più l’impero che garantiva tutto il potere
dell’anglosfera.
Gli ultimi anni della presidenza Biden piuttosto che invertire la
rotta tracciata da Trump in politica estera l’hanno proseguita, se si
considera che gli Stati Uniti non hanno cambiato la propria geopolitica e
che non stanno più esercitando il ruolo di garante militare
dell’anglosfera e dell’ordine euro-atlantico.
E’ così che sono accaduti fatti un tempo impensanbili. Quando il “presidente” degli Stati Uniti, Biden, chiamava Riyadh, i reali sauditi si facevano negare al telefono,
consci che probabilmente dall’altra parte c’era soltanto una
controfigura e che non era certo quest’ultima a prendere le decisioni.
I sauditi hanno fiutato che l’aria è cambiata e si sono scaltramente
spostati verso il nuovo nascente blocco multipolare che si fonda non
sulla supremazia di un impero, ma sulla singola sovranità degli Stati
nazionali.
Questo spiega prima la richiesta di entrare nei BRICS da parte di
Riyadh e ora la successiva decisione di lasciar scadere l’accordo che
teneva in vita il petrodollaro.
Ora non c’è davvero più nulla che possa fermare la galoppante
dedollarizzazione in corso e viene da sorridere pensando agli editoriali
dei vari atlantisti che fino a pochi mesi fa ribadivano che il dollaro
avrebbe preservato il suo status.
Da parte loro adesso c’è soltanto silenzio. C’è il silenzio di chi sa
in cuor suo che l’anglosfera ha perduto tutto il suo potere geopolitico
ed economico e che l’ordine uscito dalla seconda guerra mondiale è
ormai morto.
Il XX secolo può dirsi ufficialmente finito.
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(FONTE: https://www.lacrunadellago.net/la-morte-del-petroldollaro-e-la-fine-del-xx-secolo-dominato-dallanglosfera/)